Il senso di colpa

Il senso di colpa

Mi stupisce sempre constatare quanto il senso di colpa influenzi la vita di ogni giorno. Ci sentiamo in colpa per non aver fatto quella cosa, per non aver avuto un’attenzione per quella persona, ci sentiamo in colpa per aver preso del tempo da dedicare al nostro benessere, per non aver raggiunto gli obiettivi che ci eravamo posti noi nei tempi che noi stessi ci eravamo prefissati (questo è un ottimo modo per produrre senso di colpa). Cerchiamo anche di stabilire di chi sia la colpa, perché, diciamocela tutta, è possibile che sia sempre colpa mia? E se fosse colpa sua? Se fosse colpa del governo? Del tempo? Della società? Insomma di qualcuno deve pur essere la colpa. Ma se la colpa invece non fosse proprio di nessuno? Se non ci fosse un colpevole da andare a scovare mentre con il naso a terra seguiamo le sue tracce con il fiuto di un segugio?

Che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.  I . Svevo

Mi spiego meglio: nella dicotomia della colpa se accade qualcosa deve essere necessariamente rintracciato il colpevole, ossia la persona che ha sbagliato. In questo caso chi ha sbagliato assume una connotazione negativa: chi ha sbagliato è anche un po’ sbagliato, se ne deduce che o siamo sbagliati noi, oppure lo sono gli altri. Questo accade quando il giudizio è alla base del mio pensiero. Il giudizio non è un nemico, ovviamente ci serve per distinguere alcune situazioni buone da altre nocive, tuttavia quando diventa pervasivo ci impedisce di attivare il processo di conoscenza. La conoscenza è possibile solo quando sospendo il giudizio perché per comprendere a fondo cosa accade devo mantenere un occhio neutro. Per intenderci è un po’ quello che si chiede di fare ai giornalisti quando fanno un’inchiesta o raccontano un accaduto: si chiede al giornalista di non giudicare perché così sarà più lucida ed imparziale l’analisi dei fatti. Se il nostro giudice interno è molto laborioso, troppo stacanovista, allora tutto sarà sottoposto al suo occhio inflessibile, ma questo ci porterà a mettere sotto processo qualsiasi cosa accade nella nostra vita. Non è stancante vivere come fossimo sempre in tribunale, mettendo sul banco degli imputati noi stessi e dall’altra parte qualche altro povero malcapitato? Ne sanno qualcosa mariti/mogli, figli, amici, colleghi, genitori, anche il cane deve essere stato inquisito qualche volta.

“La nostra colpa maggiore sta nel preoccuparci delle colpe degli altri” K. Jibran

L’antidoto a questo sentimento spiacevolissimo che si chiama colpa potrebbe essere proprio quello di individuare il nostro giudice interno e dargli qualche attimo di tregua, sostituirlo con un approccio più aperto alla curiosità ed alla comprensione, senza la fretta di arrivare alla conclusione e di catalogare le cose, le persone, i fatti incasellandole in categorie. Non è colpa mia, ma nemmeno colpa sua: così apriamo la porta alla possibilità di comprendere cosa ha portato me o l’altro a fare quella scelta e non un’altra. Comprendere non significa giustificare o accettare tutto, significa solo avviare un processo di conoscenza lucida, prima di saltare alle conclusioni. Significa imparare da quello che accade, non uscirne sconfitti perché schiacciati dal senso di inadeguatezza (che è figlio della colpa).

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